True Planets

25 Dicembre 2007

L’Incontro – di Percival C. Floegers

Filed under: Racconti — info @ 14:14

“…Che cosa ci rende realmente Autori e Responsabili delle nostre scelte? Quale può essere l’elemento che rende preziosa la nostra Esperienza?

E qual’è l’istante che dà – o restituisce – “senso” e “valore” alla nostra Vita?

Domande, domande, domande…”

 §§§

Eravamo nell’Estate del 1971.

Una “calda” Estate, come tante altre.

Io ero davvero piccolo (avevo appena 8 anni…), certo, ma non ero del tutto inconsapevole.
Diciamo che vivevo la Vita in un modo più semplice. Più immediato.

Più “istintivo”, insomma.

L’esperienza che vorrei raccontare, anche se può sembrare il frutto di un brutto “trip”, o il vagheggiamento di un inconscio infantile e troppo fertile, è vera.

O meglio: io la ricordo come “vera”. Come “reale”.

Come qualcosa di realmente “vissuto”.

Talvolta, nei miei sogni, qualcosa – di questa esperienza – ancora ritorna.
Ma la “veste grafica” dei sogni, come sapete, trasfigura le memorie della realtà e le rende più opache; talvolta più dolci e sommesse.
Talvolta più romantiche o più crude.

Comunque sia, io ricordo bene quello che mi accadde…

***

Ero a Contursi, un paesino sperduto nell’entroterra campano, quasi ai confini con la Lucania. Periodo di vacanza, ovviamente speso con i miei genitori: un breve periodo del torrido mese di Agosto.

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Quel caldo e quell’umidità, così intenso e così soffocante – rispettivamente – non li ho mai dimenticati.

Mio padre e mia madre andavano lì (in quel bellissimo paesino) perchè c’erano delle terme di un qualche tipo (mi pare di ricordare acque sulfuree e fanghi) e loro erano – anzi: sono ancora! – dei “fanatici” delle terme.
E le passioni che hanno i “Genitori” (tutti i Genitori del Mondo) diventano, per necessità o per virtù (e sinchè non si cresce un pò…), anche le “passioni” dei loro figlioli.

O del loro singolo figliolo: come me.

E questo significava, tra le altre cose, che – come era naturale che fosse – Mamma e Papà mi trascinavano dietro, dovunque andassero.

Dunque anche alle quiete Terme di Contursi.

La noia, per me, era tanta. Ma fu a cominciare da un pomeriggio di quel lontano Agosto che – almeno per me – le cose della Vita (la MIA Vita) iniziarono ad apparire un pò più chiare.
 
Nessuna follìa, nessuna suggestione indotta, nessuna compagnia.
Ero solo
 
I miei, al pomeriggio, andavano a fare “il riposino” e, spesso, volevano che io stessi con loro, ma a me non piaceva dormire il pomeriggio (mi svegliavo stanchissimo e con la bocca amara: due sensazioni che ancora detesto).
Non mi piaceva proprio e allora, qualche volta, me ne restavo in giardino.

Non ti allontanare, stai attento a dove vai, stai attento alle vipere“.

I soliti consigli.
 
Io non mi allontanavo mai. Troppo.

Spesso stavo con altri ragazzini, a giocare. Altre volte mi attardavo nel piazzale o nella sala degli “ospiti”.
Quel pomeriggio, però, ero da solo, annoiato e stanco di stare in quell’albergo.

Albergo. Un parolone, se penso agli standard di oggi…

L’albergo nel quale soggiornavamo a Contursi era, in realtà, una pensione alla buona, arrangiata in una vecchia villa disposta su due o tre piani – non ricordo bene.
Una villa patrizia, in un tempo lontano, ma ora (anzi: allora!) triste e decadente, circondata da un grande giardino con piante ad alto fusto.
Davanti all’ingresso, leggermente spostata sulla sinistra dell’edificio, c’era una fontana piena di ninfee, pesci rossi e muffe.
Ricordo anche un gazebo e dei cespugli spinosi.
E poi, sul retro – dove stavano le cucine, me lo ricordo bene – c’era un sentiero sterrato che, dall’albergo/villa – appunto – conduceva sino all’aperta campagna.

Io me ne stavo accovacciato su un ciglio che dava su una piccola valle fluviale. Colline e collinette ovunque.
 
Erba alta, cicale che cantavano in continuazione, cielo sereno, forse leggermente velato.
O forse no.
Non so a che cosa stessi pensando, ma io ero solo già da allora e, in fondo, lo sono stato sempre.
Probabilmente non stavo pensando a nulla.
 
Tutto accadde in un istante: le cicale smisero di cantare, un sibilo acutissimo e poi una scia di fumo nero che attraversò lo spazio davanti a me.
Quindi un impatto, a circa 7/800 metri da dove sedevo, quasi sul fondo del canalone che avevo davanti.
Udii un tuono sommesso che fece vibrare la terra su cui sedevo.
 
E poi…Poi il silenzio più tombale che io possa ricordare.
 
Io rimasi a guardare e pensai subito, allora come adesso, “è caduto qualcosa dal cielo!“.
Forse una stella cadente di giorno“!
 
Un attimo di esitazione e poi VIA!: mi alzai e mi misi a correre verso il luogo dove “qualcosa” doveva essere caduta.
Niente fumo. Niente fiamme. Niente rumore.
 
Ma, dopo (penso) qualche centinaio di metri, incominciai a sentire un odore pungente che ancora mi pare ristagni in qualche angolo delle mie narici e della mia testa.
Non so che odore fosse.
Non mi fermai, ma rallentai.
 
Fu allora che mi accorsi che il terreno su cui camminavo crocchiava.
Guardai in basso: era tutto nero. Tutto nero come carbone. Cenere nera e cristalli scuri (o qualcosa che mi ricordava i cristalli) ovunque.
 
Ero un incosciente già allora, in fondo.
E dunque non mi fermai.
 
Quello che vidi alla fine della mia corsa è la Memoria più vivida e meravigliosa della mia Vita: e vi prego di credermi.

Il terreno era ricoperto di pietre scure, simili a grani di carbone, ma più lucide e brillanti. Sabbia riarsa? Ceneri vulcaniche?
Non lo so.

So che il terreno finiva in una radura ai piedi di un leggero declivio e quindi, di lì a qualche decina di metri, iniziava un nuovo pendìo.
Una nuova ascesa.
Una nuova collina.

E c’erano degli alberi contorti. Ne contai dodici.
Erano ulivi.

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Un filare di dodici ulivi, allineati alla buona, ed al termine di quel curioso filare, intravedevo alcuni metri di fitto sottobosco.

Camminai attraverso quella strada fatta di alberi e rapidamente giunsi alla sua fine.
Allora, accanto all’ultimo fusto ritorto, vidi una sedia.

E sulla sedia, seduto – tranquillamente – c’era un uomo. Un vecchio.
Indossava una giacca scura che credo fosse di fustagno. Pantaloni a coste larghe. Scarpe scure e polverose. Viso scavato, occhi chiari. Direi brillanti: color celeste acqua.

Forse.

Il vecchio stava seduto a guardare quel paesaggio irreale e le sue labbra si muovevano appena, come se stesse rimuginando qualcosa fra sé e sé.
Notai che le sue mani, dalle dita curve e ritorte come i rami degli ulivi che lo circondavano, stringevano un rosario.
Credo che stesse pregando.

Io non avevo nulla da dire. O forse si, ma non riuscii a dire nulla.
Mi sedetti, accanto a lui. Mi distesi e guardai il cielo. Era azzurro: azzurro intenso. Bello, luminoso e vivo.

In quei giorni i miei occhi erano ancora più che eccellenti e quindi non mi fu difficile notare che c’era qualcosa, lontanissima, che pareva sfavillare come una stella diurna.
Fissai il cielo e la stella diurna si rivelò per quello che era: una forma allungata e dai contorni annebbiati.
Una forma di color argento.

Fu allora che sentii le mie braccia e le mie gambe pesantissime. Ebbi l’intenzione di alzarmi e di mettermi comodo per guardare meglio quell’oggetto, ma le braccia e le gambe, per degli istanti che ancora avverto come eterni, non mi risposero.
E neppure le mascelle, che si erano serrate sino a farmi male.
Cercai di parlare, ma non riuscii ad aprir bocca.
Cercai di deglutire, vanamente.
Cercai anche di strisciare via, ma mi accorsi che avevo qualcosa “dentro” che mi fermava.

Avete mai avuto un incubo nel quale, a fronte di una minaccia incombente, tentate di scappare via, di correre, di allontanarvi in fretta?
Se la vostra risposta è “si”, allora sapete anche voi quello che succede in quei casi: succede che il tempo rallenta, l’aria diventa spessa e pesante e qualsiasi azione, anche la più semplice, diventa impossibile a compiersi. Anche il movimento più naturale si trasforma in un qualcosa di difficilissimo, goffo e malfatto.
Anzi: in qualcosa di impossibile a farsi.
Si resta immobili.
Pietrificati.
In balìa di un Destino che non comprendiamo e che sembra calare su di noi come un muro materializzatosi dal nulla.

E così ero io: lì per terra, con gli occhi rivolti al cielo, il respiro sempre più pesante, i muscoli pietrificati e la paura. Una paura che cresceva di istante in istante.

Poi ricordo luce. Luce color argento e rosso, Riflessi rossi.

Un senso di sospensione e di interruzione: tutto si era fermato. Anche il mio cuore, suppongo. Ero lì, ma ero anche in un altro posto.
Ma non saprei dire quale posto…

Avvertivo un grande senso si peso, come se la gravità – per me – fosse improvvisamente diventata insostenibile.
E quindi, improvvisamente, il risveglio: un senso di caduta libera, il vuoto.
Il lento risvegliarsi del corpo.

Il peso che avevo sul cuore era sparito, ma le mascelle mi facevano ancora male. Potevo – a fatica – deglutire. La mia maglietta era bagnata fradicia: avevo sudato ed avevo il collo ricoperto della mia stessa saliva.
Avevo anche sbavato, certamente.

Sentivo un sapore acido in bocca, avevo le orecchie semi-tappate ed i muscoli dolenti.
Ma ero nuovamente libero.
E dunque mi alzai.

Non c’era assolutamente nulla intorno a me, tranne i due filari di ulivi ed un terreno che pareva essere stato completamente bruciato.
Il vecchio e la sua sedia erano ovviamente scomparsi ed io, piccolo ma razionale, realizzai che avevo avuto un incubo assurdo. Forse – anzi: di certo – avevo anche camminato e corso.
Ma dovevo averlo fatto mentre dormivo.
Come un sonnambulo…

Era accaduto qualcosa: questo lo sapevo. Ne ero certo. Ma sul “che cosa” non avrei potuto dire nulla: né allora, né adesso.
I miei ricordi lucidi si fermavano alla scia di fumo ed al tuono silenzioso. Il resto era una sorta di sogno/incubo/visione.

Tornai all’albergo, camminando lentamente e cercando di fissare nella mia memoria quello che era accaduto.

Ricordo che raccontai qualcosa a mamma e papà, ricavandone un plauso alla mia fervida immaginazione.

Le notti che seguirono le passai, per lunghe ore, con i miei, sul retro dell’albergo, a guardare il cielo.
La Via Lattea, allora ed in quel luogo, dominava la notte ed era uno spettacolo meraviglioso.
Non credo di averla più rivista così chiara come in quelle notti.

Poi, dopo qualche giorno di maltempo (un maltempo fatto di improvvisi e violenti – ed indimenticabili! – temporali) e qualche giorno di Sole, venne l’ora di andare via.

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Valigie fatte in fretta, qualche bacio a qualcuno che dovevo aver conosciuto lì, ma che ora si è perso nelle nebbie del tempo; una camminata nel Sole del mattino (anzi: del tardo mattino!) dall’albergo sino alla stazione.

Caldo intenso. Ancora.

Attesa del treno. Osservavo i binari, la minuscola stazione, un ponte non troppo lontano. Mio papà scattava fotografie.
Mia mamma indossava un abito intero colorato: sfondo blu con fiori rossi.
Cicale che cantavano.
Attesa, trepidazione, osservazione dei dintorni.
Poi – finalmente – il convoglio arriva, sbuffa, si ferma.

Saliamo. I bagagli sono rapidamente sistemati nello scompartimento, mio padre se ne va in corridoio ed abbassa un finestrino. Poi mi chiama.
Qualche istante e sento che le porte sbattono ed il convoglio accenna a muoversi.
Raggiungo mio padre e guardo fuori dal finestrino.

C’era una sorta di magazzino, dipinto di bianco, proprio accanto al binario principale. La porta del magazzino era chiusa.
Quel magazzino – lo avevo guardato bene mentre aspettavamo il treno – era sempre chiuso. Chissà che cosa conteneva…

Ma fuori, appoggiato a quel muro che rifletteva i raggi intensi del Sole d’Agosto, c’era – ed ora potevo vederla bene – una sedia. E su quella sedia, seduto, ecco ancora il vecchio che avevo visto alla fine della mia corsa immaginaria.
Alla fine del mio strano sogno.
Alla fine dell’incubo che, ancora oggi come vi dicevo, di quando in quando torna a farmi visita.

Il treno aveva già preso velocità quando io cercai di sporgermi per guardare meglio, ma mio padre mi afferrò e mi tenne indietro.
Stai attento! Che fai? Ti vuoi buttare di sotto? – disse”.

Eravamo già sul ponte in ferro che sovrastava il fiume e segnava la fine (o l’inizio, a seconda della direzione di marcia…) del paese. La stazione, la villa, le terme, il vecchio…Tutto era rimasto indietro e stava già dissolvendosi nella canicola.

A Contursi non sarei mai più tornato.

***

Questa novella breve è dedicata a Contursi (un bellissimo paese che occupa un grande posto nei miei ricordi d’infanzia), ai miei Genitori (perchè mi portarono lì, anche se io non avevo voglia di andarci…) ed al mio Caro Amico e Compagno di Penna, Giuseppe Spina, con il quale, da qualche anno, condivido – sia pure solo “virtualmente” – tanti pensieri, parole, opere…ed omissioni.

25 Aprile 2006

Ashes to Ashes… – di Paolo C. Fienga

Filed under: Racconti — info @ 19:58

In questi giorni si compie l’undicesimo anniversario della morte di mio Nonno, Leone Guerra.
Questo articolo vuole essere il mio modesto contributo alla Sua – per me e per tutti coloro che lo hanno conosciuto – indelebile Memoria.

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Mio Nonno non era uno Scienziato, ma qualche idea sul “Senso della Natura” è stato capace di darmela.
E’ stato capace di darmela raccontandomi, sin da quando io ero ancora un bambino, di quello che i suoi occhi riuscivano a vedere, talvolta con semplicità, talvolta sforzandosi.
Quando mio Nonno era un ragazzo eravamo nei primi anni del Ventesimo Secolo ed il Mondo – adesso posso dire di averlo capito bene anch’io – doveva essere proprio diverso…
Comunque sia, Nonno Leone mi ha aiutato ad afferrare, almeno in parte, il “Senso della Natura” e questo “Senso”, a mio modo di vedere, costituisce la base ottimale su cui coloro che hanno non solo una certa predisposizione, ma anche un buon interesse, possono (anche se vorrei dire “devono”…) costruire un percorso conoscitivo della realtà il quale sia capace di poggiare non solo sulla Conoscenza Razionale, acquisita mediante lo studio, ma anche sull’Osservazione Diretta, acquisita mediante la sensibilità.
Sulla “capacità di guardare e, guardando, di vedere” insomma, anche se, come tutti sanno, spesso gli occhi…ingannano.

Mio Nonno non era un Santo e lui stesso me lo aveva detto e ripetuto tante volte: lui era stato un Soldato – un “Ragazzo del ’99”, ad essere precisi – ed i Soldati come lui, se volevano compiere il proprio dovere sino in fondo (e, nel contempo, essere capaci di restare vivi, al fronte) non potevano permettersi di essere dei “Santi”.

Però mio Nonno era anche – e sicuramente – un Uomo di Fede. Una Grande Fede.
Una Fede genuina, travolgente, autentica e, forse – alle volte –, anche piuttosto ingenua (oggi si direbbe “naif”), ma certo era una Fede vera: intoccabile ed inattaccabile.
E la Strada della Fede, come sanno tutti, non sempre si sposa bene con quella della conoscenza razionale. Anzi: non si sposa affatto con essa.

Ecco, mio Nonno era così: un Osservatore della Natura (che cercava di cogliere e di capire attraverso gli occhi) ed un Cercatore della Trascendenza, di Dio.
Un Dio (spesso elusivo, come nei “giorni di guerra”) che cercava di cogliere e di capire attraverso il cuore.
Non so se, negli ultimi istanti della sua Vita, questa sua “dualità” lo abbia aiutato, suggerendogli il percorso finale da seguire, oppure se gli abbia “confuso” i passi, facendolo dubitare.
Questo non può saperlo nessuno. Oggi.

Quello che so è che i suoi insegnamenti – mai imposti e sempre suggeriti – mi sono stati di aiuto, nella Vita, per capire, anche nei momenti più scuri e difficili, quale strada seguire e, soprattutto, quale spirito adottare per seguirla.
L’acutezza nell’osservazione e dell’osservazione, unita all’umiltà di giudizio (alla prudenza, insomma) ed alla consapevolezza che il dominio sulla Verità non è un dominio di questo mondo, sono i tasselli fondamentali del Metodo che mi ha insegnato lui e che io cerco di adottare, da sempre.

Oggi, ad undici anni dalla sua morte (ed a molti di più dalla mia fanciullezza), mi occupo di Scienza e di Divulgazione della Scienza. Un percorso difficile, fatto proprio di osservazione, di metodo, di razionalità e, alle volte, anche di Trascendenza.
Una Trascendenza che affonda le sue origini in quella stessa Scienza che cerco di spiegare, con semplicità, agli altri.
Ma un buon “suggeritore” – poiché definirmi “Insegnante” mi pare proprio fuori luogo – deve sapere “come” proporre gli argomenti.
Un buon “Divulgatore” deve essere resistente, ma pure flessibile.
Deve essere attento ed esigente, ma anche comprensivo.
Deve essere accattivante e preciso, ma anche e soprattutto semplice.

Ad esempio, l’idea di pubblicare, accanto ai frames (e cioè alle immagini che arrivano dallo Spazio), le Captions (e cioè i commenti) NASA originali per essi predisposte, è figlia del tentativo di aiutare i Lettori a capire meglio quello che stanno guardando mediante la proposizione di un modello esplicativo semplice, stringato e, almeno in teoria, assolutamente affidabile ed accreditato.

Lasciamo parlare chi sa”: questa era ed è la filosofia.

In qualità di Ricercatore (e di Fondatore dell’Associazione Lunar Explorer Italia) io cerco – a volte riuscendoci di più ed altre volte (come ovvio ed umano) di meno – di dare poco/pochissimo spazio alle derive intellettuali di stampo complottistico (e/o di “congiura globale”) le quali individuano, in ogni “silenzio” (così come in ogni dichiarazione “spuntata” e/o “lacunosa” di “Coloro che Sanno”), un possibile (se non certo) segnale di occultamento (oggi si chiama “cover-up”).
Pensate: si è parlato e si parla di cover-up – inter alia – per Roswell, per l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy, per lo sbarco sulla Luna e, venendo a tempi recenti, per gli attentati del “September Eleven” (o “9/11”).

Si parla, tanto, spesso avendo pochi dati a disposizione, e si finisce con il dire – questo non sempre, ma probabilmente ed inevitabilmente molto spesso – delle solenni stupidaggini.
Su questo concetto mi sono già pronunciato in passato, dunque scusate la ripetizione.
Mio Nonno mi diceva “Quando non sai, sta zitto e ascolta: nella peggiore delle ipotesi non ti noterà nessuno; nella migliore, avrai imparato qualcosa”.

Già: un ottimo insegnamento.

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Ma veniamo ad oggi, ai commentini NASA “spuntati” ed alle deduzioni che, sempre più spesso, traiamo da essi: ebbene io non credo nel cover-up assoluto, ma ho la sensazione – sempre più forte – che la nostra Scienza (perché qui, su queste pagine, è di Scienza che si parla) non sia in grado di rispondere alle domande davvero interessanti che l’Esplorazione Spaziale ci spinge a porci.

Qualcuno ha detto che un’immagine parla più di cento libri: e secondo me questo è vero.
E da un libro (un buon libro) nascono almeno mille domande.
Ma allora, se queste premesse sono corrette, da mille “immagini”, quante “parole” e, quindi, quante “domande” nasceranno mai?!?

Io rispetto la NASA (perché è – anche – grazie ad essa che ho iniziato ad amare la Scienza), come è giusto che sia, ma non la sopravvaluto: a mio parere, infatti, molti dei suoi silenzi e delle sue spiegazioni – ribadisco: sempre più ripetitive, banali e scontate – non credo che sìano (completamente, almeno) figlie di una “Congiura Globale” la quale è finalizzata a mantenere il Genere Umano nell’ignoranza più totale e bestiale, mentre in pochi (gli “Eletti”?) crescono, evolvono e, ovviamente, mantengono il potere.

Io credo che l’atteggiamento della NASA, almeno in larghissima misura (dalla dichiarazione più datata per giungere sino alla più recente), sia figlio non solo e non tanto dell’ignoranza “tout-court”, ma anche dell’arroganza di sapere.
L’arroganza di coloro che pretendono di avere sempre una risposta (peraltro giusta) a tutti i quesiti che un uomo si può porre (ed anche in Italia, di “Scienziati” che rispondono a questo stereotipo ce ne sono diversi, non credete?!?…).

Io credo che i sempre più stringati (e, alle volte ormai, così saccenti dal risultare anche tristemente irritanti) commenti della NASA – o di qualsiasi altra Agenzia Spaziale – alla quasi totalità dei frames proposti trovino la loro ragione di essere nel semplice fatto che la Verità è oltremodo complessa, decisamente lontana da noi e dal nostro modo di pensare (scientificamente) e quindi – ad oggi – sostanzialmente inafferrabile.
Certo non inafferrabile in assoluto, ma inafferrabile “al momento”!

Inafferrabile almeno fintanto che non proveremo ad allargare, di almeno di un “paio di gradi”, quella finestra sull’Universo ed i suoi fenomeni che la nostra Scienza Consolidata (in origine fondata sulla Matematica, il Raziocinio e l’Osservazione, ma che oggi – anzi: almeno da mezzo secolo – si regge anche su Dogmi e Professioni di Fede) pretende di mantenere socchiusa.
Tranquillamente socchiusa, perché – in fondo – se molti dicono che la Verità rende Liberi, altri sono sempre più convinti che la Verità, invece, “fa paura”.
Fa “solo” paura.
E paura di che cosa?

Paura, per esempio, di scoprire che l’Universo ha un ordine, ma che quest’ordine non è quello che pensavamo e pensiamo; paura di capire che, tra le fondamenta esatte della nostra Scienza, ve ne sono anche di fallaci; paura di riscrivere un’infinità di libri e di doverci, conseguentemente, confrontare con una marea di errori (alcuni, forse, terribili); paura di dire “caspita: ho sbagliato!”.

Ed è per questi motivi che, alla NASA come all’ESA e come in tante Scuole ed Istituzioni Scientifiche (in Italia, in Europa e nel Mondo), si continua a parlare ed a fornire risposte anche quando l’unica cosa da dire e da fare sarebbe quella di sedersi, tirare un sospiro e poi esprimere un franco ed intellettualmente onesto “…Non lo so…”.

Un “non lo so” che, nel tempo, ci potrebbe portare a capire – tra un passo e l’altro – che, al termine del percorso (di ogni percorso terreno, sia esso Scientifico, Filosofico o meramente Umano), l’Uomo non solo non risulta essere il Centro dell’Universo, o della Via Lattea, o del Sistema Solare, ma neppure – forse – il centro della “sua” stessa Terra.
Neppure il centro della “sua” stessa Vita.

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Dietro alle migliaia di vane parole che gli “Scienziati” attaccano alle “Immagini dell’Universo” c’è – forse – il solo tentativo di seppellire la inevitabile consapevolezza (maturata attraverso l’apprendimento e l’esperienza) di non essere affatto dei “Primi Attori”, ma solo delle piccole “comparse”.
C’è la paura di non essere degli “Eruditi Maestri”, ma solo dei “mediocri discepoli”.

E qui mi ritorna in mente, ancora una volta e per un’ultima volta, mio Nonno Leone, con la sua semplicità e la sua acutezza; con la sua capacità di osservare e di dedurre, ma anche con la sua inclinazione ad interpretare gli eventi della Vita, al pari dei fenomeni della Natura, in una chiave più sottile e rivolta – come dicevo – anche alla Trascendenza, all’Oltre ed all’imponderabile.

Una chiave rivolta, in fondo, a Dio.

E così ragionando mi sembra di capire che l’ultima paura che tanti “Scienziati” ed “Uomini di Scienza” hanno – forse la più grande, quella capace di soffocare il giusto silenzio con fiumi di vane parole – è quella di scoprire, razionalmente e scientificamente (e, dunque, “in via definitiva ed inequivocabile”, così come piace dire a costoro) che, in fondo, non siamo nulla se non un battito d’ali nel tramonto.

Oppure, proprio come mi diceva mio Nonno, che “Polvere siamo, e Polvere ritorneremo”.
 

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