L’Incontro – di Percival C. Floegers
“…Che cosa ci rende realmente Autori e Responsabili delle nostre scelte? Quale può essere l’elemento che rende preziosa la nostra Esperienza?
E qual’è l’istante che dà – o restituisce – “senso” e “valore” alla nostra Vita?
Domande, domande, domande…”
§§§
Eravamo nell’Estate del 1971.
Una “calda” Estate, come tante altre.
Io ero davvero piccolo (avevo appena 8 anni…), certo, ma non ero del tutto inconsapevole.
Diciamo che vivevo la Vita in un modo più semplice. Più immediato.
Più “istintivo”, insomma.
L’esperienza che vorrei raccontare, anche se può sembrare il frutto di un brutto “trip”, o il vagheggiamento di un inconscio infantile e troppo fertile, è vera.
O meglio: io la ricordo come “vera”. Come “reale”.
Come qualcosa di realmente “vissuto”.
Talvolta, nei miei sogni, qualcosa – di questa esperienza – ancora ritorna.
Ma la “veste grafica” dei sogni, come sapete, trasfigura le memorie della realtà e le rende più opache; talvolta più dolci e sommesse.
Talvolta più romantiche o più crude.
Comunque sia, io ricordo bene quello che mi accadde…
***
Ero a Contursi, un paesino sperduto nell’entroterra campano, quasi ai confini con la Lucania. Periodo di vacanza, ovviamente speso con i miei genitori: un breve periodo del torrido mese di Agosto.
Quel caldo e quell’umidità, così intenso e così soffocante – rispettivamente – non li ho mai dimenticati.
Mio padre e mia madre andavano lì (in quel bellissimo paesino) perchè c’erano delle terme di un qualche tipo (mi pare di ricordare acque sulfuree e fanghi) e loro erano – anzi: sono ancora! – dei “fanatici” delle terme.
E le passioni che hanno i “Genitori” (tutti i Genitori del Mondo) diventano, per necessità o per virtù (e sinchè non si cresce un pò…), anche le “passioni” dei loro figlioli.
O del loro singolo figliolo: come me.
E questo significava, tra le altre cose, che – come era naturale che fosse – Mamma e Papà mi trascinavano dietro, dovunque andassero.
Dunque anche alle quiete Terme di Contursi.
La noia, per me, era tanta. Ma fu a cominciare da un pomeriggio di quel lontano Agosto che – almeno per me – le cose della Vita (la MIA Vita) iniziarono ad apparire un pò più chiare.
Nessuna follìa, nessuna suggestione indotta, nessuna compagnia.
Ero solo
I miei, al pomeriggio, andavano a fare “il riposino” e, spesso, volevano che io stessi con loro, ma a me non piaceva dormire il pomeriggio (mi svegliavo stanchissimo e con la bocca amara: due sensazioni che ancora detesto).
Non mi piaceva proprio e allora, qualche volta, me ne restavo in giardino.
“Non ti allontanare, stai attento a dove vai, stai attento alle vipere“.
I soliti consigli.
Io non mi allontanavo mai. Troppo.
Spesso stavo con altri ragazzini, a giocare. Altre volte mi attardavo nel piazzale o nella sala degli “ospiti”.
Quel pomeriggio, però, ero da solo, annoiato e stanco di stare in quell’albergo.
Albergo. Un parolone, se penso agli standard di oggi…
L’albergo nel quale soggiornavamo a Contursi era, in realtà, una pensione alla buona, arrangiata in una vecchia villa disposta su due o tre piani – non ricordo bene.
Una villa patrizia, in un tempo lontano, ma ora (anzi: allora!) triste e decadente, circondata da un grande giardino con piante ad alto fusto.
Davanti all’ingresso, leggermente spostata sulla sinistra dell’edificio, c’era una fontana piena di ninfee, pesci rossi e muffe.
Ricordo anche un gazebo e dei cespugli spinosi.
E poi, sul retro – dove stavano le cucine, me lo ricordo bene – c’era un sentiero sterrato che, dall’albergo/villa – appunto – conduceva sino all’aperta campagna.
Io me ne stavo accovacciato su un ciglio che dava su una piccola valle fluviale. Colline e collinette ovunque.
Erba alta, cicale che cantavano in continuazione, cielo sereno, forse leggermente velato.
O forse no.
Non so a che cosa stessi pensando, ma io ero solo già da allora e, in fondo, lo sono stato sempre.
Probabilmente non stavo pensando a nulla.
Tutto accadde in un istante: le cicale smisero di cantare, un sibilo acutissimo e poi una scia di fumo nero che attraversò lo spazio davanti a me.
Quindi un impatto, a circa 7/800 metri da dove sedevo, quasi sul fondo del canalone che avevo davanti.
Udii un tuono sommesso che fece vibrare la terra su cui sedevo.
E poi…Poi il silenzio più tombale che io possa ricordare.
Io rimasi a guardare e pensai subito, allora come adesso, “è caduto qualcosa dal cielo!“.
“Forse una stella cadente di giorno“!
Un attimo di esitazione e poi VIA!: mi alzai e mi misi a correre verso il luogo dove “qualcosa” doveva essere caduta.
Niente fumo. Niente fiamme. Niente rumore.
Ma, dopo (penso) qualche centinaio di metri, incominciai a sentire un odore pungente che ancora mi pare ristagni in qualche angolo delle mie narici e della mia testa.
Non so che odore fosse.
Non mi fermai, ma rallentai.
Fu allora che mi accorsi che il terreno su cui camminavo crocchiava.
Guardai in basso: era tutto nero. Tutto nero come carbone. Cenere nera e cristalli scuri (o qualcosa che mi ricordava i cristalli) ovunque.
Ero un incosciente già allora, in fondo.
E dunque non mi fermai.
Quello che vidi alla fine della mia corsa è la Memoria più vivida e meravigliosa della mia Vita: e vi prego di credermi.
Il terreno era ricoperto di pietre scure, simili a grani di carbone, ma più lucide e brillanti. Sabbia riarsa? Ceneri vulcaniche?
Non lo so.
So che il terreno finiva in una radura ai piedi di un leggero declivio e quindi, di lì a qualche decina di metri, iniziava un nuovo pendìo.
Una nuova ascesa.
Una nuova collina.
E c’erano degli alberi contorti. Ne contai dodici.
Erano ulivi.
Un filare di dodici ulivi, allineati alla buona, ed al termine di quel curioso filare, intravedevo alcuni metri di fitto sottobosco.
Camminai attraverso quella strada fatta di alberi e rapidamente giunsi alla sua fine.
Allora, accanto all’ultimo fusto ritorto, vidi una sedia.
E sulla sedia, seduto – tranquillamente – c’era un uomo. Un vecchio.
Indossava una giacca scura che credo fosse di fustagno. Pantaloni a coste larghe. Scarpe scure e polverose. Viso scavato, occhi chiari. Direi brillanti: color celeste acqua.
Forse.
Il vecchio stava seduto a guardare quel paesaggio irreale e le sue labbra si muovevano appena, come se stesse rimuginando qualcosa fra sé e sé.
Notai che le sue mani, dalle dita curve e ritorte come i rami degli ulivi che lo circondavano, stringevano un rosario.
Credo che stesse pregando.
Io non avevo nulla da dire. O forse si, ma non riuscii a dire nulla.
Mi sedetti, accanto a lui. Mi distesi e guardai il cielo. Era azzurro: azzurro intenso. Bello, luminoso e vivo.
In quei giorni i miei occhi erano ancora più che eccellenti e quindi non mi fu difficile notare che c’era qualcosa, lontanissima, che pareva sfavillare come una stella diurna.
Fissai il cielo e la stella diurna si rivelò per quello che era: una forma allungata e dai contorni annebbiati.
Una forma di color argento.
Fu allora che sentii le mie braccia e le mie gambe pesantissime. Ebbi l’intenzione di alzarmi e di mettermi comodo per guardare meglio quell’oggetto, ma le braccia e le gambe, per degli istanti che ancora avverto come eterni, non mi risposero.
E neppure le mascelle, che si erano serrate sino a farmi male.
Cercai di parlare, ma non riuscii ad aprir bocca.
Cercai di deglutire, vanamente.
Cercai anche di strisciare via, ma mi accorsi che avevo qualcosa “dentro” che mi fermava.
Avete mai avuto un incubo nel quale, a fronte di una minaccia incombente, tentate di scappare via, di correre, di allontanarvi in fretta?
Se la vostra risposta è “si”, allora sapete anche voi quello che succede in quei casi: succede che il tempo rallenta, l’aria diventa spessa e pesante e qualsiasi azione, anche la più semplice, diventa impossibile a compiersi. Anche il movimento più naturale si trasforma in un qualcosa di difficilissimo, goffo e malfatto.
Anzi: in qualcosa di impossibile a farsi.
Si resta immobili.
Pietrificati.
In balìa di un Destino che non comprendiamo e che sembra calare su di noi come un muro materializzatosi dal nulla.
E così ero io: lì per terra, con gli occhi rivolti al cielo, il respiro sempre più pesante, i muscoli pietrificati e la paura. Una paura che cresceva di istante in istante.
Poi ricordo luce. Luce color argento e rosso, Riflessi rossi.
Un senso di sospensione e di interruzione: tutto si era fermato. Anche il mio cuore, suppongo. Ero lì, ma ero anche in un altro posto.
Ma non saprei dire quale posto…
Avvertivo un grande senso si peso, come se la gravità – per me – fosse improvvisamente diventata insostenibile.
E quindi, improvvisamente, il risveglio: un senso di caduta libera, il vuoto.
Il lento risvegliarsi del corpo.
Il peso che avevo sul cuore era sparito, ma le mascelle mi facevano ancora male. Potevo – a fatica – deglutire. La mia maglietta era bagnata fradicia: avevo sudato ed avevo il collo ricoperto della mia stessa saliva.
Avevo anche sbavato, certamente.
Sentivo un sapore acido in bocca, avevo le orecchie semi-tappate ed i muscoli dolenti.
Ma ero nuovamente libero.
E dunque mi alzai.
Non c’era assolutamente nulla intorno a me, tranne i due filari di ulivi ed un terreno che pareva essere stato completamente bruciato.
Il vecchio e la sua sedia erano ovviamente scomparsi ed io, piccolo ma razionale, realizzai che avevo avuto un incubo assurdo. Forse – anzi: di certo – avevo anche camminato e corso.
Ma dovevo averlo fatto mentre dormivo.
Come un sonnambulo…
Era accaduto qualcosa: questo lo sapevo. Ne ero certo. Ma sul “che cosa” non avrei potuto dire nulla: né allora, né adesso.
I miei ricordi lucidi si fermavano alla scia di fumo ed al tuono silenzioso. Il resto era una sorta di sogno/incubo/visione.
Tornai all’albergo, camminando lentamente e cercando di fissare nella mia memoria quello che era accaduto.
Ricordo che raccontai qualcosa a mamma e papà, ricavandone un plauso alla mia fervida immaginazione.
Le notti che seguirono le passai, per lunghe ore, con i miei, sul retro dell’albergo, a guardare il cielo.
La Via Lattea, allora ed in quel luogo, dominava la notte ed era uno spettacolo meraviglioso.
Non credo di averla più rivista così chiara come in quelle notti.
Poi, dopo qualche giorno di maltempo (un maltempo fatto di improvvisi e violenti – ed indimenticabili! – temporali) e qualche giorno di Sole, venne l’ora di andare via.
Valigie fatte in fretta, qualche bacio a qualcuno che dovevo aver conosciuto lì, ma che ora si è perso nelle nebbie del tempo; una camminata nel Sole del mattino (anzi: del tardo mattino!) dall’albergo sino alla stazione.
Caldo intenso. Ancora.
Attesa del treno. Osservavo i binari, la minuscola stazione, un ponte non troppo lontano. Mio papà scattava fotografie.
Mia mamma indossava un abito intero colorato: sfondo blu con fiori rossi.
Cicale che cantavano.
Attesa, trepidazione, osservazione dei dintorni.
Poi – finalmente – il convoglio arriva, sbuffa, si ferma.
Saliamo. I bagagli sono rapidamente sistemati nello scompartimento, mio padre se ne va in corridoio ed abbassa un finestrino. Poi mi chiama.
Qualche istante e sento che le porte sbattono ed il convoglio accenna a muoversi.
Raggiungo mio padre e guardo fuori dal finestrino.
C’era una sorta di magazzino, dipinto di bianco, proprio accanto al binario principale. La porta del magazzino era chiusa.
Quel magazzino – lo avevo guardato bene mentre aspettavamo il treno – era sempre chiuso. Chissà che cosa conteneva…
Ma fuori, appoggiato a quel muro che rifletteva i raggi intensi del Sole d’Agosto, c’era – ed ora potevo vederla bene – una sedia. E su quella sedia, seduto, ecco ancora il vecchio che avevo visto alla fine della mia corsa immaginaria.
Alla fine del mio strano sogno.
Alla fine dell’incubo che, ancora oggi come vi dicevo, di quando in quando torna a farmi visita.
Il treno aveva già preso velocità quando io cercai di sporgermi per guardare meglio, ma mio padre mi afferrò e mi tenne indietro.
“Stai attento! Che fai? Ti vuoi buttare di sotto? – disse”.
Eravamo già sul ponte in ferro che sovrastava il fiume e segnava la fine (o l’inizio, a seconda della direzione di marcia…) del paese. La stazione, la villa, le terme, il vecchio…Tutto era rimasto indietro e stava già dissolvendosi nella canicola.
A Contursi non sarei mai più tornato.
***
Questa novella breve è dedicata a Contursi (un bellissimo paese che occupa un grande posto nei miei ricordi d’infanzia), ai miei Genitori (perchè mi portarono lì, anche se io non avevo voglia di andarci…) ed al mio Caro Amico e Compagno di Penna, Giuseppe Spina, con il quale, da qualche anno, condivido – sia pure solo “virtualmente” – tanti pensieri, parole, opere…ed omissioni.